Siamo a Varsavia, corre l’anno 1936. Ai tavolini della Mała Ziemiańska e dello Zodiak, principali punti di ritrovo della bohéme, siedono alcuni dei maggiori artisti dell’epoca. Tra loro c’è una poetessa appena giunta al successo. Julian Tuwim le ha aperto le porte di riviste letterarie del calibro di «Wiadomości Literackie» e «Skamander». Da alcuni mesi è entrata, unica donna, nella redazione del settimanale satirico «Szpilki». È la prima dama al tavolino di Witold Gombrowicz. Presso un rinomato editore della capitale è da poco uscito il suo primo volume di poesie. Ha solo diciannove anni. Si chiama Zuzanna Ginczanka.
Giunta l’anno prima da Równe, cittadina multietnica della Volinia, cresciuta in una famiglia russofona di origini ebraiche, fin da giovanissima aveva deciso di diventare una poetessa polacca. A metà degli anni Trenta la sua rapida ascesa è sotto gli occhi di tutti, ma in pochi sembrano accorgersi del ruolo che è costretta a recitare. “Bellezza ebraica e poesia melodiosa, occhi da cerbiatta, fughe e nascondigli ebraici, per me sono simboli atemporali, come nelle parabole bibliche”, dice Kazimierz Brandys. Jerzy Andrzejewski la chiama “stella di Sion”, Ryszard Matuszewski la definisce “bella come un’icona bizantina”, Jan Kott afferma che “tutti erano entusiasti dei suoi versi, in cui, come nella sua bellezza, c’era qualcosa della poesia persiana”. Prima di quello di poetessa, Ginczanka deve interpretare il ruolo di donna. Prima ancora di quello di donna, è costretta a recitare il ruolo della “bella ebrea”, della donna esotica. Sottoposta a un duplice procedimento di erotizzazione e orientalizzazione, incarna un’alterità che suscita attrazione e turbamento. Lo sguardo altrui la tramuta in un corpo: “aveva un enorme successo. Niente di strano. Splendido torso, fianchi degni dello scapello di uno scultore greco, gambe meravigliose. E occhi stranissimi, cangianti, come acqua di mare al sole, un taglio sensuale della bocca”, afferma Józef Łobodowski. Nella maggioranza dei casi, le poesie e il corpo di Ginczanka costituiscono per i suoi ammiratori un unico testo. Il corpo di Ginczanka è un testo sul quale vengono proiettati desideri e fantasie. […]
La questione, tuttavia, non è se il suo aspetto fosse effettivamente esotico, quanto piuttosto l’uso strumentale che ne viene fatto, l’insieme di significati di cui viene intessuto. Potremmo parlare di un ricatto identitario imposto a Ginczanka: le è consentito avere accesso al mondo della cultura polacca solo in quanto personificazione di una seducente donna straniera, ma non le è permessa una vera, piena assimilazione.
Alessandro Amenta, Prefazione